In tutti i campi delle attività umane caratterizzati da creatività e innovazione, accade periodicamente che lo stato dell'arte subisca un'improvvisa accelerazione in base a qualche nuova scoperta, tecnologia oppure semplicemente al design industriale.
Nella prima metà degli anni '70 si verificò un fenomeno del genere con l'avvento di una moto che costrinse l'intero ambiente motociclistico a riparametrare tutti i riferimenti estetici e prestazionali.
Ultima arrivata tra le grandi Case motociclistiche, ma dotata di un back-ground industriale di primissimo livello in altri campi, la Kawasaki era fino ad allora conosciuta - famigerata sotto certi aspetti - principalmente per le sue tricilindriche due tempi, note per la loro pericolosità non tanto per la
potenza che esprimevano, tutto sommato limitata, quanto per le loro ciclistiche demenziali che le rendevano ingestibili ed effettivamente pericolose.
potenza che esprimevano, tutto sommato limitata, quanto per le loro ciclistiche demenziali che le rendevano ingestibili ed effettivamente pericolose.
La grande Casa di Akashi stava sperimentando un motore da 750cc ma fu battuta sul tempo dalla Honda che presentò la sua famosa CB che per conto suo dette l'avvio all'epoca delle maximoto giapponesi di cui l'utenza cominciò ad apprezzare l'estrema cura costruttiva e la totale affidabilità, due virtù in cui non eccellevano i prodotti europei.
Ma il dominio... culturale dettato dalla filosofia costruttiva della CB750, di lì a poco estesa anche a cilindrate inferiori, durò giusto il tempo che necessitò alla Kawasaki di concepire ed immettere sul mercato un prodotto nettamente superiore sia dal punto di vista prestazionale che da quello del prestigio derivante dal produrre la più grossa maxi sul mercato.
La Z900, a differenza dei prodotti Honda, si avvaleva di un doppio asse a camme in testa ispirato niente meno che all'architettura delle Gilera ed MV da competizione. Non a caso, i primi prototipi sperimentati risultarono perfino troppo potenti da immettere sul mercato, sia per una questione di ingestibilità con la componentistica dell'epoca (sospensioni, gomme e freni) sia per una riscontrata fragilità in sede di collaudo. Ma bastò ridurre la potenza da 95cv del prototipo ai pur tanti 82 della versione definitiva per ritrovare affidabilità, ottenendo comunque la più potente moto di serie sul mercato.
Ducati Apollo - 1963 |
La nuova Kawasaki tuttavia vantava caratteristiche dinamiche superiori alla media giapponese, infatti molto spesso gli utenti si limitavano alla sostituzione degli ammortizzatori posteriori e delle gomme di primo equipaggiamento che, per legge in Giappone, erano concepite per durare almeno 20.000km ma erano poco gradite dai motociclisti europei per via della loro scarsa aderenza. Una classica gomma after-market per questa ed altre moto di alte prestazioni dell'epoca era il Dunlop K81.
Invece di ricorrere ad acronimi, la grossa Kawasaki vantava la sua architettura motoristica con la dicitura per esteso "Double Over Head Camshaft" (Doppio Albero a Camme in Testa) iscritta sotto al logo che ne indicava la cilindrata.
Con i suoi monoalbero, la Honda poteva ostentare al massimo l'acronimo OHC, senza il "Double"...
Anche dal punto di vista stilistico, dal momento della sua uscita nel 1972, la filante Z900 risultò innovativa grazie alla trovata del codino retrosella che da quel momento in poi diventò irrinunciabile per tutto il resto della produzione stradale, di lì a poco assieme al doppio albero a camme in testa.